Pietro Mennea

È morto il 21° marzo in una clinica a Roma, all’età di 60 anni, Pietro Mennea, ex velocista azzurro, olimpionico e per anni primatista mondiale dei 200 metri. Era nato a Barletta (Puglia) il 28 giugno 1952. Da tempo lottava con un male incurabile.

Il mare di Formia deve essersi intristito di brutto stamattina. Pietro Mennea è morto a 60 anni e pochi mesi – era nato a Barletta il 28 giugno del 1952 – e oltre alla sua Barletta, al suo studio di avvocato, ai tanti stadi frequentati, al dolore di sua moglie Manuela, c’è venuto da pensare a quei giorni infiniti fra l’hotel Miramare e la scuola dello sport di Formia, la sua seconda casa, diventata negli anni prima, primissima, alle mille ripetute sui 150 metri, gli allenamenti durante le feste di Natale, di Pasqua e di Capodanno, lui con quella strana tuta blu della nazionale che portava larga larga e il professor Vittori con il cronometro in mano. L’atletica era la sua vocazione, il terreno su cui aveva scelto di spremere se stesso, come disse lui in una delle tante biografie: “da quando non contavo nulla a quando una gara era diventata un esame”. E che esami. Quelli vinti, stravinti, sempre con qualche retroscena alle spalle, riempito da un’insicurezza che si trasformava in forza della natura. La natura di uomo normale che s’era messo a sfidare i marziani.

 

Pietro Mennea è stato campione olimpico a Mosca nel 1980 sui 200 metri, un anno prima s’era preso a Città del Messico il primato del mondo con quel 19”72 che sarebbe rimasto sul trono fino al 1996 (lo battè Michael Johnson prima degli anni dell’uragano Bolt), 6018 giorni di regno, e che ancora oggi è il migliore tempo di un europeo sulla distanza. Ma nel suo curriculum interminabile c’è di tutto: i tre titoli europei fra Roma ’74 (100) e Praga ’78 (100 e 200). E poi un argento mondiale con la staffetta a Helsinki ‘83. Ma a proposito di staffetta, chi non ricorda quella prodigiosa rimonta che portò al bronzo la 4 x 400 a Mosca? E non uno, ma due ritorni, come se l’atletica fosse qualcosa di cui non si riusciva a fare a meno, prima nell’82, poi nell’87. In tutto cinque finali olimpiche, 528 gare per 52 presenze in Nazionale.

Era tutto cominciato a Barletta, dove aveva cominciato con l’Avis. La pista che ha difeso con il cuore negli ultimi anni in cui l’avrebbero voluta smantellare, quella in cui realizzò quel 19”96 post olimpico, un’altra medaglia d’oro per lui. Poi era venuta quella notte a Termoli, il giorno in cui Tommie Smith l’aveva preceduto nell’albo d’oro del record del mondo dei 200 metri. Il giorno dopo avrebbe dovuto correre lui, una gara giovanile. Il momento in cui scatta qualcosa, in cui senti dentro di te una storia che prende la strada giusta. Quella che l’avrebbe portato al bronzo di Monaco, alla delusione del quarto posto di Montreal, a Praga, a quel ragazzino messicano con cui aveva condiviso la vigilia delle Universiadi nel villaggio di Città del Messico, un’amicizia portafortuna di cui ci aveva parlato a lungo. Quindi Mosca, la botta sui 100 metri, il “non corro” prima dei 200, un grande tira e molla dell’animo. E ancora il primo ritiro e poi il ritorno a Helsinki e quel viaggio all’inferno, 1984, a Los Angeles già andata, l’”assaggio” del doping, quasi il gusto perverso di vedere per un solo attimo ciò che era più lontano da lui, un atleta tutto e solo allenamento.

 

Raccontò e poi si mise a lottare contro il doping a testa bassa: libri, denunce, proposte di legge. Già, la Legge. Mennea ne aveva fatto la sua seconda vita. Giurisprudenza, la sua prima laurea, nell’89, subito dopo Seul. E poi Scienze Politiche, Lettere, Scienze Motorie. Un record del mondo pure questo. Se n’è andato a 60 anni. Vivendo tante vite.  A un certo punto, finiti tutti i ritorni possibili, aveva cominciato a non sopportare l’atletica. Qualcosa di strano, come se si fosse convinto che quell’impegno, quelle corse, gli avessero portato via tutta la vita che c’era. Era finito pure nel calcio, procuratore di giocatori e poi direttore generale della Salernitana alla fine degli anni ’90. Ma non era il suo ambiente. Quindi, in politica, deputato europeo con Di Pietro e relatore del Rapporto sullo sport votato a Strasburgo nel 2000. Poi era tornato al mestiere di avvocato, aveva riscoperto l’atletica, facendoci pace. Voleva dare, voleva trasmettere anche se lo sport, lo sport che deve organizzare, dirigere, promuovere, non era riuscito mai a considerarlo una risorsa.

Il matrimonio con Manuela aveva spostato parecchio in questa trasformazione. Forse si era finalmente reso conto dell’importanza delle pagine scritte incontrando il gusto di rileggerle. Gli piovevano i complimenti di tutto il mondo. Quelli di Mourinho, per esempio, che dichiarò di essersi ispirato a lui. Questi ultimi mesi li ha vissuti in silenzio. E noi qui a interrogarci su un segnale che ci avrebbe potuto portare a quel dramma che si stava consumando e di cui non sapevamo niente. Una scheggia di conversazione riferita da un amico: “Scusa, non ti ho potuto rispondere, ero in clinica”. Di certo c’è lo smarrimento di tutto lo sport italiano, soprattutto delle persone di mezze età, quelle abituate al “Mennea, Mennea” pronunciato tante volte da Paolo Rosi, quelle che da ragazzini prendendo l’autobus al volo si sentivano dire dal conducente “e chi sei, Mennea!”. Da oggi quegli italiani lì si sentono più vecchi, più soli, più tristi.

Valerio Piccioni – La Gazzetta dello Sport www.gazzetta.it 21 marzo 2013

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Bart Tordeurs is auteur, fotograaf, gids en reisleider Italië met een jarenlange passie voor Rome.

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