La storia che state per leggere è un racconto popolare della mia città, Mondragone, un centro rurale e di turismo balneare situato 40 km a nord di Napoli. Forse, vi dirà di più se aggiungo che la cittadina è uno dei tre più importanti centri di produzione della mozzarella di bufala. Il nome del santo protagonista di questa storia, non è facile da tradurre: Santu Cupecone. Sembra quasi un San Jacopone, ma non ci metterei la mano sul fuoco e perciò nel raccontarvi questa storia, utilizzerò il nome in dialetto.

Tanto tempo fa, vivevano in un casolare ai confini della città, due contadini, marito e moglie. Condividevano una vita dura, fatta di sveglie all’alba, ingrato lavoro nei campi, schiene piegate dalla semina e dal raccolto, pelle bruciata d’estate dal sole e d’inverno dal gelo. Ma una fortuna ce l’avevano: possedevano un bel pezzo di terra e non erano costretti a lavorare per un padrone. Condividevano tutto…o quasi.

[wpmem_logged_out] Verder lezen? Word lid van Taste-Italy en ontvang je gebruikersnaam en paswoord.
[/wpmem_logged_out] [wpmem_form login] [/wpmem_form] [wpmem_logged_in]

Ogni giorno, verso mezzogiorno, poco prima della pausa per un pasto [simple_tooltip content=’parco, sobrio, spec. nel mangiare e nel bere’]frugale[/simple_tooltip], la moglie, Orsola, si allontanava dal marito, Domenico, e dagli attrezzi di lavoro, si recava presso una grande quercia e si inginocchiava di fronte al tronco. Ogni giorno, puntualmente, diceva al marito: “Vado a pregare Santu Cupecone affinché ci conceda un raccolto ricco e abbondante”. Orsola andava lì e ci restava almeno una decina di minuti. Il marito vedeva dunque la moglie andare sotto questa quercia tutti i santi giorni, col maltempo e col bel tempo, e questo succedeva ormai da quasi due anni. Ma che aveva da pregare? Orsola era diventata sin troppo devota. Fino a due anni prima, andava in chiesa solo a Pasqua e Natale, ora invece ci andava ben tre volte a settimana.

Domenico doveva vederci chiaro, e così, un giorno andò alla quercia prima di Orsola, salì sull’albero, si nascose tra i rami e aspettò lì, curioso di sentire le sue preghiere. Orsola arrivò verso il solito orario, si inginocchio, si fece il segno della croce e disse: “Santu Cupecone miu, ceca e cionca maritu miu”, che tradotto significa “San Jacopone mio, fa’ che mio marito diventi cieco e [simple_tooltip content=’debole, impotente’]paralitico[/simple_tooltip]”. Domenico ci restò di sasso: tutti quegli anni ad ammazzarsi di lavoro insieme e questo era ciò che Orsola desiderava, che il marito si ammalasse gravemente! E che mai ne avrebbe guadagnato dai suoi malanni? Chi avrebbe lavorato la terra al posto suo? Avrebbe voluto prenderla a calci e [simple_tooltip content=’respingere una persona con cui si abbia avuto un legame sociale o affettivo’]ripudiarla[/simple_tooltip], ma Santu Cupecone stesso, gli diede la capacità di elaborare un piano diabolico.

Senza demoralizzarsi, ma soprattutto, senza farsi scoprire, disse, cambiando un po’ il tono vocale: “Pe se cieca’ e pe se ciuncà, sette agline nere s’ha da mangià”, che significa: “Per accecarsi e paralizzarsi, sette galline nere dovrà mangiare”. “Ah,” esclamò Orsola, “sarà facile…di galline nere ne abbiamo una dozzina…bisogna aspettare solo il momento giusto”. Orsola tornò dalle sue preghiere tutta [simple_tooltip content=’far diventare vivace, ardito e allegro come un galletto’]ringalluzzita[/simple_tooltip], e sembrava avere ancor più energia del solito. Canticchiava persino!

Domenico, in cuor suo, bolliva di rabbia, ma sapeva che la vendetta è più spietata quando si ha pazienza e un buon piano. Pochi giorni dopo, durante i lavori alle albicocche, cominciò a lamentarsi di un mal di schiena improvviso e di un mal di testa forte e persistente. Orsola gli disse che a casa si sarebbe presa bene cura di lui e che tutto ciò di cui aveva veramente bisogno erano una cena [simple_tooltip content=’sontuoso e raffinato’]luculliana[/simple_tooltip] e un meritato riposo. Appena arrivati a casa, Orsola gli disse di preparare il fuoco, mentre lei sarebbe andata a prendere sette belle galline nere da fare allo spiedo. “Che disgraziata”, pensò Domenico, “siamo appena arrivati a casa e già non vede l’ora di farmi fuori!”

Orsola torse il collo alle galline, le spennò, le ripulì, le infilò nello spiedo e le mise ad arrostire sul fuoco. Girava lo spiedo e sorrideva, canticchiando e sghignazzando, guardando sottecchi il povero Domenico, che lei riteneva all’oscuro di tutto. Si sedettero a tavola, Domenico aprì una bottiglia di vino e si preparò ad [simple_tooltip content=’riempirsi avidamente e scompostamente di cibo’]abbuffarsi[/simple_tooltip]. E poi, avrebbe visto cosa avrebbe fatto Orsola quando lui sarebbe stato, per così dire, cieco e paralitico.

Dopo la prima gallina, Domenico disse: “Ah…mi sento già meglio. Orsola, amore mio, ma non mi faranno male sette galline una dietro l’altra?”

“Mangia, marito mio, ti devi rimettere”, rispose Orsola. Dopo la seconda gallina, Domenico disse: “Avevi ragione, queste gallinelle sono davvero saporite. Mi sento così bene che dopo, in camera da letto voglio spennare per bene anche te, gallinellona mia, maga dei fornelli”. Sul volto di Orsola scese un velo di preoccupazione: “Stai a vedere che Santu Cupecone mi ha suggerito male! Domenico sembra davvero stare bene. Devo aspettare, siam solo all’inizio”. E infatti, verso la quarta, Domenico cominciò a dire di vederci un po’ appannato. “Mangia, Domenicuccio, mangia, ché è tutta salute”. Alla sesta, disse di sentirsi le gambe pesanti. “Funziona,” pensava giuliva dentro di sé Orsola. Alla settima, Domenico si fece cadere di mano il bicchiere di vino. “Orsola, Orsola dove sei?? Non ci vedo più e mi sento le gambe come due massi. Aiutami, Orsola, aiutami a distendere sul [simple_tooltip content=’letto improvvisato con mezzi di fortuna (per lo più con un senso di commiserazione)’]giaciglio[/simple_tooltip] vicino al fuoco”. Orsola esultava in silenzio, ma fece come se fosse preoccupata, aiutando il marito a coricarsi. Gli passo tre dita davanti agli occhi e gli chiese quante fossero, ma Domenico non riusciva a distinguere nulla, anzi, oltre che cieco e paralitico, sembrava fosse diventato anche un po’ sordo. “Riposati, intanto io esco a cercare un dottore,” disse la moglie. Ma Orsola in realtà corse a chiamare l’amante che da quasi due anni frequentava…il prete!

Orsola e il prete entrarono in casa e cercarono di capire se Domenico desse cenni di vita, ma questi sembrava dormire profondamente. “Finalmente insieme, Domenico non si accorgerà mai di nulla, e pure se lo facesse, cosa mai potrebbe fare? Non ci vede, non cammina, sembra essere diventato sordo. Evviva Santu Cupecone mio, che ha accecato e paralizzato il marito mio!” Orsola e il prete corsero in camera da letto, ma non certo per pregare lo Spirito Santo. Il marito sentiva tutto dalla cucina e ribolliva di rabbia.

Prese un pentolino, lo riempì d’olio e lo mise sul fuoco. Nel frattempo i due amanti erano [simple_tooltip content=’di corpo che offre un attrito minimo, spostarsi rapidamente su una superficie uniforme e levigata’]civolati[/simple_tooltip]s tra le braccia di Morfeo e russavano senza preoccupazioni. Non appena l’olio cominciò a soffriggere, Domenico entrò zitto zitto in camera da letto, si avvicinò ai due disgraziati e versò il contenuto (olio bollente!!) direttamente nell’orecchio del prete, che fece una bruttissima morte: praticamente, Domenico gli aveva fritto il cervello, e Orsola era ammutolita dinanzi a tanta crudeltà, temendo ormai che il marito l’avrebbe uccisa. “Per amor di Dio, perdonami, Domenico, ho sbagliato, ma è stato lui a convincermi di pregare affinché ti ammalassi. I preti parlano così bene, usano il latino, potrebbero convincere chiunque a fare qualsiasi cosa, ti prego, non uccidermi, ti prometto che ti sarò fedele per sempre”. “E allora aiutami a sbarazzarmi del cadavere, non voglio mica essere arrestato per causa vostra”.

Domenico e Orsola presero il corpo senza vita del prete e lo caricarono sul carretto, prepararono l’asino e si avviarono in campagna per seppellire il prete presso la quercia di Santu Cupecone. Poco dopo essersi avviati, il marito disse: “Caspita, stiamo andando a seppellire qualcuno, cantiamo qualcosina per accompagnarlo durante il passaggio verso l’altro mondo”. Orsola rispose di non conoscere nessun canto funebre, e allora fu Domenico a inventarne uno. “Canta ciò che canto anch’io, suvvia. In tre andiamo e uno solo ritorna, in tre andiamo e uno solo ritorna”. Orsola non capiva bene il senso delle parole, ma cantava lo stesso. Arrivati presso la quercia, Domenico diede una pala alla moglie e le ordinò di scavare una [simple_tooltip content=’scavo praticato nel terreno, di misure e grandezze diverse secondo l’uso cui è destinato’]fossa[/simple_tooltip].

Dopo un’ora la fossa era pronta e Domenico disse a Orsola: “Moglie, accertiamoci che la fossa sia abbastanza profonda, ché nessuno dovrà mai scoprire il cadavere. Buttati nella fossa, e se ci entrate in due, siamo sicuri che sarà abbastanza grande per nascondere bene il corpo del prete”. Orsola, come avrete capito, non era molto intelligente, e non intuendo il piano del marito, acconsentì a buttarsi nella fossa. Non appena i due amanti sfortunati furono nella fossa, Domenico colpì alla testa con la pala l’infedele Orsola e la ricoprì con la terra. Poi aggiustò per bene la terra, in modo che nessuno potesse sospettare che fosse stata smossa, si rimise sul carretto, si fece la croce, disse un Eterno riposo e ripartì verso casa, con l’alba che già spuntava all’orizzonte.

Il giorno dopo, tutto la città si accorse della sparizione del prete, tutte le comari notarono l’assenza di Orsola, ma nessuno fece domande a Domenico. Nessuno voleva rigirare il coltello nella piaga, perché tutti pensarono che i due fossero scappati in segreto, tanto ormai lo avevano capito da tempo che tra Orsola e il prete c’era qualcosa e secondo loro, l’unico a non saperlo era proprio Domenico. Meglio non umiliarlo ulteriormente, già ci aveva pensato la moglie a disonorarlo, ora andava lasciato in pace. E fu così che la quercia di Santu Cupecone rimase nel tempo a vegliare sulle due vittime infelici della lussuria, che mai avrebbero ottenuto giustizia.

Vocabolario:
• Frugale: parco, sobrio, spec. nel mangiare e nel bere
• Paralitico: debole, impotente
• Ripudiare: respingere una persona con cui si abbia avuto un legame sociale o affettivo
• Ringalluzzire: far diventare vivace, ardito e allegro come un galletto
• Luculliana: sontuoso e raffinato
• Abbuffarsi: riempirsi avidamente e scompostamente di cibo
• Giaciglio: letto improvvisato con mezzi di fortuna (per lo più con un senso di commiserazione)
• Scivolare: di corpo che offre un attrito minimo, spostarsi rapidamente su una superficie uniforme e levigata
• Fossa: scavo praticato nel terreno, di misure e grandezze diverse secondo l’uso cui è destinato

[/wpmem_logged_in] [wpmem_logged_out]
[/wpmem_logged_out]